La guerra è una brutta storia. L’ISIS è una brutta storia. Le immagini di prigionieri in tuta arancione, decapitati o arsi vivi per mano dei terroristi, di Ailan, il bimbo siriano con il corpicino riverso sulla spiaggia, delle migliaia di profughi stipati sui gommoni per sfuggire all’orrore, rimbalzano di telegiornale in talk show ad ogni ora del giorno, davanti i nostri occhi. Ma basta un clic e tutto scompare.
La guerra è una brutta storia, ma è lontana dal nostro mondo e non ci appartiene. Eppure siamo campioni nell’adattare l’immagine profilo per solidarietà al popolo francese (giusto) e a condividere link, confondendo in maniera vergognosa terrorismo e religione, credendoci “portatori sani” di giustizia, libertà e diritti.
Settant’anni fa la nostra Italia è stata teatro della Seconda Guerra mondiale, ma evidentemente settant’anni sono un lasso di tempo lunghissimo, tanto da dimenticare gli orrori e gli insegnamenti. Karim Franceschi, no. Nato a Marrakech, ventisette anni fa, Karim è cresciuto con i racconti di suo padre, Primo Franceschi, che, appena adolescente divenne partigiano. “Era l’unica cosa da fare” raccontava a suo figlio. Quando Karim ha sette anni si trasferiscono in Italia, a Senigallia, a causa di un peggioramento dello stato di salute di Primo, che morirà pochi anni dopo.
Karim cresce conservando gli ideali di suo padre, sa di essere un rivoluzionario. Nel 2014, con il progetto Rojava calling, la carovana di aiuti umanitari organizzata dai centri sociali italiani, arriva a Suruc, a sud della Turchia. Kobane la vede all’orizzonte, è vicina ma è impossibile andarci, su di lei sventola l’orrida bandiera del Califfato.
A Suruc , una sera, avverte un lamento doloroso: in un campo poco lontano, una trentina di persone, erano sedute attorno ad un fuoco; cantavano canzoni popolari curde e si tenevano per mano. “Cantavano perché era l’unico modo per comunicare con chi era rimasto a Kobane, per ricordare a tutti che erano un unico grande popolo.”
Kobane è uno dei tre cantoni, insieme a Jazira e Afrin, del Rojava, la regione settentrionale della Siria, dove si stava cercando di costruire una società basata sui principi di democrazia, uguaglianza di genere e sostenibilità. Kobane è più di un simbolo, è l’ultimo baluardo della libertà. Uomini, donne e ragazzini, arruolati nel movimento indipendentista curdo Yekîneyên Parastina Gel (YPG), combattono senza sosta contro le milizie del Califfato, che nell’ottobre del 2014 ha conquistato l’80% dell’area urbana.
A gennaio, con una calza della befana come dono per i bambini, Karim entra a Kobane per arruolarsi nelle milizie dell’YPG, con il nome di battaglia, Marcello. “Heval Marcello”, l’unico italiano a combattere a fianco dei curdi per la libertà.
Con appena quattro giorni di addestramento, Karim prenderà parte in prima linea nei combattimenti. Soffrirà il freddo e la fame, sarà sempre sul punto di morire e ucciderà gli uomini di Daesh. Vedrà morire gli amici, giovani padri e madri di famiglia, che sognavano una vita come tutti gli altri, ma che la barbarie umana ha costretto ad armarsi contro il nemico, perché “era l’unica cosa da fare”. Contribuirà alla liberazione della città e vedrà tornare i bambini a giocare, anche se la fine della guerra è lontana.
Parte del ricavato dalla vendita del libro servirà alla ricostruzione di Kobane. Per contribuire www.helpkobane.com